25/04/2024
In che modo il soft power influenza le relazioni estere? Perché l’hard power non è sufficiente?
Scritto da : Marine OURAHLI
Nell’ambito dell’espansione internazionale del Cercle de Stratégies et d’Influences, vi invitiamo a guardare in modo diverso e decentrato le principali questioni contemporanee.
Questo articolo esamina la funzione del soft power nella politica estera cinese, evidenziandone l’importanza in risposta alle preoccupazioni occidentali sui diritti umani e su questioni simili. Nonostante la crescente potenza economica e militare, la Cina sta cercando di consolidare la propria reputazione globale attraverso la diplomazia culturale e altre tattiche di soft power. L’articolo descrive varie iniziative intraprese dalla Cina, tra cui la creazione di Istituti Confucio e i progressi dell’industria cinematografica. Tuttavia, riconosce anche le sfide che la Cina deve affrontare, come la sua governance autoritaria e le sue politiche controverse. In definitiva, l’articolo conclude che, sebbene la Cina si stia sforzando di migliorare la sua posizione internazionale, persistono limiti intrinseci dovuti al suo sistema politico e alle sue pratiche interne.

Introduzione :
In che modo il soft power influenza le relazioni estere? Perché il potere duro non è sufficiente? Il potere economico della Cina è ben consolidato ed è riuscito ad affermarsi come attore chiave nella geopolitica regionale e globale. Tuttavia, la Cina è spaventata e minacciosa per l’Occidente. L’opinione pubblica occidentale la critica spesso per la mancanza di democrazia, il trattamento riservato alle minoranze etniche, i problemi con i diritti umani, il lavoro minorile, la libertà di espressione e così via. La Cina sta diventando una grande potenza militare, il che non placa i timori della comunità internazionale, ma la sua ambizione è quella di essere un partner competitivo ma non aggressivo per avere un impatto reale sulla scena internazionale. La politica cinese ha compreso l’importanza di mostrarsi sotto una nuova luce utilizzando il soft power. Per questo motivo è necessario esaminare il bisogno di soft power della Cina nelle sue relazioni esterne. È essenziale esaminare l’efficacia del soft power nel mondo, nonché il soft power cinese e i vari mezzi che utilizza. Il soft power è definito come la capacità di uno Stato di influenzare e modellare le relazioni internazionali a proprio favore con mezzi diversi dalla coercizione (minacce o uso della forza), in particolare con mezzi culturali e diplomatici. Questo concetto è stato definito dal professore americano Joseph Nye ed è stato adottato da molti leader politici. Questo saggio sostiene il fallimento visibile della diplomazia cinese e la cultura come chiave di volta del soft power cinese. Il resto del saggio è strutturato in modo da esaminare prima il soft power come pilastro delle relazioni internazionali e poi le conseguenze del soft power nelle relazioni della Cina con il resto del mondo.
L’uso del soft power e della diplomazia culturale nelle relazioni estere:
Joseph Nye definisce il potere in senso lato come la capacità di un’entità (un Paese, un’organizzazione non governativa, un individuo, ecc.) di ottenere ciò che vuole da un’altra entità. Nella teoria di Nye, l’arsenale di mezzi utilizzati per costringere (qui entra in gioco la logica della minaccia, spesso con mezzi militari) o incitare (fornendo contropartite o concedendo concessioni, spesso finanziarie) si distingue dalla capacità di sedurre. La coercizione (“il bastone”) e l’incitamento (“la carota”) sono definiti come gli strumenti del “potere duro”, quello che assume la forma di una forza relativamente tangibile. La capacità di sedurre, invece, corrisponde a un campo d’azione più sottile, quello del “soft power”. Un soft power ampio e forte richiede la partecipazione attiva e libera della società civile ed è quindi più facilmente riscontrabile nelle società liberali. Il soft power è quindi la capacità di un Paese di influenzare senza utilizzare strumenti convenzionali. L’uso del soft power consente di evitare il ricorso a strumenti dannosi e di passare a nuove relazioni di potere. L’uso del soft power consente a un Paese di consolidare il proprio potere nel mondo e di costruirsi una buona reputazione, conquistando così la simpatia della popolazione. L’hard power consente a un Paese di diventare una potenza militare ed economica, mentre il soft power permette di stabilire e mantenere tale potere nel lungo periodo. Nella cassetta degli attrezzi del soft power, la cultura è spesso presentata come la più ovvia fonte di influenza nei confronti delle nazioni straniere. Un Paese può usare la cultura per affermare il proprio potere e renderlo desiderabile, come nel caso di Francia e Inghilterra.
Quella che potremmo chiamare “diplomazia culturale” è storicamente una specificità francese, inventata nel XIX secolo e che ha permesso alla Francia di affermarsi come modello nonostante l’instabilità politica che regnava nel Paese. Gli Stati Uniti sono spesso citati come soft power, essendo riusciti a esportare la loro cultura in tutto il mondo. Hollywood è stata ed è tuttora il braccio del soft power americano, diffondendo lo stile di vita americano nel mondo attraverso il cinema. Il cinema americano è il più redditizio al mondo, ma è solo terzo in termini di volume di produzione cinematografica, dopo India e Nigeria. I film americani riflettono sempre le pretese del potere americano, come dimostra ad esempio il film Captain Phillips, basato su una storia vera, che mostra i mezzi militari utilizzati dagli Stati Uniti per salvare un marinaio fatto prigioniero dai pirati somali. Nye ama paragonare l’influenza della potenza americana a quella dell’Impero romano, con la differenza che l’influenza di Roma si fermava dove le sue truppe erano riuscite a imporsi, mentre la gloria degli Stati Uniti abbraccia quasi tutto il globo.
Potenze asiatiche come l’India, il Giappone e la Corea del Sud hanno acquisito un vero e proprio potere culturale negli ultimi 20 anni. Il Giappone, ad esempio, ha iniziato a delineare forme di soft power già negli anni Sessanta, avviando la nascita di un “nuovo” soft power negli anni Novanta, ai margini della stagnazione economica, alimentato dalla cultura popolare e da ciò che essa dice della società giapponese. Consapevoli di una rivalità emergente con le altre potenze asiatiche, i leader giapponesi volevano sfruttare l’attrattiva del Giappone per promuovere una strategia di influenza su scala regionale e persino internazionale. Va menzionato anche il soft power coreano, noto anche come Hallyu, che negli ultimi anni ha visto una vera e propria svolta. Dall’inizio degli anni 2010 si è assistito a un’esplosione della popolarità del K-Pop, con, ad esempio, i primi concerti K-Pop nel mondo occidentale e il fenomenale successo di “Gangnam Style” di Psy. Più recentemente, il successo mondiale di Squid Game, la serie più vista sulla piattaforma americana Netflix, e il film Parasite di Bong Joon-ho, vincitore di quattro Oscar e della Palma d’Oro, sono solo due esempi. Il soft power è parte integrante di vere e proprie strategie politiche, geopolitiche ed economiche, che ampliano la portata della competizione tra le potenze asiatiche.
L’integrazione del soft power nelle relazioni esterne della Cina:
La Cina, nonostante la sua innegabile potenza economica e militare, gode di una reputazione detestabile sulla scena internazionale, portando con sé una serie di problemi come l’autoritarismo e la mancanza di rispetto per i diritti umani. Recentemente, la situazione del traffico di uiguri in Cina ha ricevuto una grande attenzione da parte della comunità internazionale, aggiungendo un nuovo livello all’impopolarità del Paese. Per aumentare la propria popolarità, la Cina ha deciso di adattare la propria politica estera al “soft power”. Pechino aveva bisogno di dare di sé un’immagine positiva e il soft power era il modo migliore per farlo. Il governo ha quindi messo in atto una strategia basata sull’influenza internazionale. Ciò si riflette in un graduale aumento del coinvolgimento nelle operazioni di mantenimento della pace e nella ricerca di visibilità all’interno delle organizzazioni internazionali.
Questa strategia mirava a promuovere la percezione della Cina come un Paese che usa il suo potere per la pace, aiutando a costruire e mantenere la pace nei Paesi colpiti da conflitti. Di conseguenza, la Cina è ora il maggior contributore di truppe ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e il sesto maggior contributore finanziario alle operazioni di mantenimento della pace, con una particolare attenzione geografica al continente africano. Non è sorprendente vedere Pechino coinvolta nella pace in Africa, avendo investito pesantemente nel continente dal punto di vista economico, un progetto noto come Chinafrica, per cui queste missioni servono molti interessi cinesi. Negli ultimi anni, la Cina ha partecipato a dodici operazioni di mantenimento della pace in Africa, tra cui Sudan (UNMIS), Sahara occidentale (MINURSO), Costa d’Avorio (UNOCI), Etiopia-Eritrea (UNMEE), Liberia (UNMIL), Repubblica Democratica del Congo (MONUC) e, dal 2013, Mali (MINUSMA).
Nonostante i suoi sforzi a favore della pace nel mondo, la Cina si sforza di promuovere queste idee all’interno dei propri confini. La Cina è nota per una particolare pratica diplomatica conosciuta come “diplomazia del panda”. Si tratta di regalare panda giganti per avviare relazioni diplomatiche con un nuovo Paese o per migliorare quelle esistenti. Questa pratica non è nuova, poiché se ne trovano tracce fin dalla dinastia Tang, tra il 618 e il 907. Ha raggiunto il suo apogeo sotto la Cina maoista, per presentare un atteggiamento più morbido al resto del mondo e stabilire così relazioni con i Paesi del blocco occidentale. In Cina, il panda è considerato un “tesoro nazionale” e il dono è quindi di grande importanza. Tuttavia, a causa delle pressioni esercitate da alcuni attivisti ambientalisti, questa politica è stata ufficialmente interrotta nel 1984 e sostituita da prestiti a lungo termine a zoo stranieri a causa del suo status di animale protetto.
La Cina rimane un Paese contestato e le sue missioni di pace sono viste come ipocrite e opportunistiche. Quando Pechino ha ospitato le Olimpiadi estive nel 2008 e quelle invernali nel 2022, ci sono state numerose critiche, proteste e richieste di boicottaggio, dando un duro colpo al tentativo di soft power della Cina. Nel 2022, manifestanti tibetani hanno supplicato davanti alla sede del Comitato Olimpico Internazionale a Losanna “affinché Pechino 2022 non diventi Berlino 1936”, e numerose manifestazioni hanno chiesto il boicottaggio dei Giochi Olimpici. Washington ha annunciato un “boicottaggio diplomatico” dei Giochi Olimpici il 9 dicembre 2020. Gli Stati Uniti hanno giustificato questa decisione citando le violazioni dei diritti umani nella regione dello Xinjiang, dove la Cina è accusata di tenere un milione di uiguri, una minoranza musulmana di lingua turca, in campi di internamento. Molti Paesi hanno seguito l’esempio, tra cui Canada, Giappone, Regno Unito e Australia. Le Olimpiadi estive del 2008 hanno scatenato un movimento simile, ma questa volta il punto di riferimento era la questione del Tibet. La staffetta della torcia olimpica è stata teatro di numerose manifestazioni, in particolare quando la fiamma è stata accesa a Olimpia il 24 marzo, poi quando ha attraversato Londra il 6 aprile e Parigi il 7 aprile. Come previsto dalla teoria, possiamo notare che la Cina ha fatto affidamento sulla diplomazia culturale come elemento principale della sua strategia internazionale. La Cina ha una cultura ricca e diversificata, una cultura che potrebbe essere la sua più grande risorsa. Esportare la propria cultura permette ai valori cinesi di coesistere con altre potenze culturali come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia.
Gli Istituti Confucio sono uno dei principali elementi del soft power della Cina nella sua politica estera. Lo scopo di questi istituti è quello di diffondere la lingua, la cultura, la storia e la filosofia cinese nel mondo. La logica è semplice: più le popolazioni del mondo padroneggiano la lingua cinese e si interessano alla cultura del Paese, meglio saranno compresi l’emergere della Cina e le politiche e le idee promosse dal Regno di Mezzo sulla scena internazionale. Il numero di istituti è cresciuto e si è moltiplicato dalla metà degli anni 2000. Secondo l’ultimo censimento dell’Hanban, l’Ufficio nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera (Ministero dell’Istruzione cinese), nel 2017 c’erano ben 516 Istituti Confucio e 1.076 classi Confucio nelle scuole primarie e secondarie in 142 Paesi. In un mondo globalizzato come il nostro, il principale elemento culturale è il cinema, un settore che la Cina occupa da tempo.
Il cinema ha un forte capitale simbolico e la Cina ha un’industria enorme. Per la prima volta nella storia, i ricavi cinematografici della Cina hanno superato quelli degli Stati Uniti nel 2020, rendendo il cinema cinese un elemento interessante nell’espansione del suo soft power. La Cina è diventata il più grande mercato cinematografico del mondo, superando quello statunitense di pochi milioni di dollari. La sfida principale che il cinema cinese deve affrontare risiede nella sua focalizzazione su un pubblico domestico, che spesso ostacola la sua capacità di affermarsi sulla scena internazionale, soprattutto di fronte alla forte concorrenza delle industrie cinematografiche di Hong Kong, Giappone e Corea. Nonostante i numerosi tentativi di penetrazione nel mercato cinese da parte di società americane, come ad esempio Mulan della Disney, che purtroppo non ha avuto successo nelle sale cinematografiche cinesi, alcuni film cinesi sono riusciti ad ottenere un riconoscimento mondiale. Il capolavoro di Ang Lee, Crouching Tiger, Hidden Dragon, ne è un esempio, avendo vinto il prestigioso Oscar come miglior film straniero. La filmografia di Zhāng Yì-Móu, acclamata a livello internazionale, è uno dei risultati più notevoli del cinema cinese. Dimostrando un’acuta comprensione del potere del cinema, nel 2019 la Cina ha presentato La terra errante. Adattato dal celebre racconto di Liu Cixin del 2000, il film ha segnato la prima incursione della Cina nei blockbuster di fantascienza, con aspirazioni che vanno oltre i suoi confini. In particolare, è stata la prima volta che la censura cinese ha autorizzato la rappresentazione della distruzione di Pechino e Shanghai. La Terra Errante è diventato in breve tempo il secondo film più redditizio della storia del cinema cinese, con incassi considerevoli. A livello globale, è diventato il terzo film di maggior incasso del 2019, seguito dai colossi Disney Avengers: Endgame e Captain Marvel. Successivamente, Netflix ha acquisito i diritti de La Terra Errante, facilitandone l’uscita a un pubblico globale quando sarà presentato in anteprima il 30 aprile 2019. Questa mossa strategica ha sottolineato la portata del film e ne ha garantito l’accessibilità in tutto il mondo. Nel 2024, l’acclamato romanzo di fantascienza cinese di Liu Cixin ha ricevuto un trattamento televisivo, adattato per un pubblico internazionale su Netflix da un team di produzione americano che comprendeva i produttori dell’acclamata serie Game of Thrones.
Dopo essere stata adattata per il pubblico cinese nel 2023, la serie offre ora un mix distinto di influenze occidentali e cinesi, portando una prospettiva fresca che sfida la narrazione occidentale dominante nella fantascienza mainstream. Il significativo investimento della Cina nella fantascienza sottolinea la sua ambizione di plasmare l’immaginario collettivo, presentando una visione del futuro in cui la Cina non è solo presente, ma emerge come attore centrale. Questa attenzione strategica alla fantascienza è un potente strumento per proiettare l’influenza della Cina sulla scena mondiale, promuovendo una narrazione che pone la nazione all’avanguardia dell’innovazione tecnologica e del progresso sociale.
Impegnandosi attivamente nella produzione e nella promozione di storie di fantascienza, la Cina cerca di affermare la propria presenza nella coscienza collettiva, plasmando la percezione del mondo di domani e del proprio posto al suo interno.
Conclusione:
Il soft power ha pervaso le relazioni internazionali per decenni ed è considerato uno strumento indispensabile per le potenze per affermare il proprio status. Il soft power è necessario anche per consolidare il potere duro ed è quindi indispensabile. La Cina è una delle nazioni che ha compreso l’importanza del soft power e ha orientato la propria politica internazionale verso questo obiettivo. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, la Cina si scontra con numerosi ostacoli che le impediscono di avere un hard e soft power efficace.
La natura del regime cinese è di per sé un limite al soft power che Pechino cerca di dispiegare. I limiti del soft power risiedono quindi piuttosto nelle iniziative a volte troppo zelanti delle autorità cinesi, che hanno permesso al soft power di decollare. La strategia di massicci investimenti nei Paesi in via di sviluppo, senza alcun riguardo per gli equilibri locali o il rispetto dei diritti umani, è indubbiamente redditizia per Pechino, ma potrebbe essere considerata un hard power piuttosto che un soft power.
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In relazione all’autore :

Marine Ourahli
“Scrittore per il Cercle de Stratégies et d’Influences”.
Marine OURAHLI si è recentemente laureata al Master internazionale Erasmus Mundus in Sicurezza, Intelligence e Studi strategici, un programma gestito congiuntamente dall’Università di Glasgow, dall’Università di Dublino e dalla Charles University di Praga. Con una laurea in letteratura, esplora le intersezioni tra cultura e difesa, con particolare attenzione alle dinamiche del soft power e all’influenza della cultura popolare sul pensiero strategico.